Mamme a 40 anni, i rischi aumentano
A cura del Dottor Patrizio Antonazzo, primario di ostetricia e ginecologia all’ospedale Bufalini, Cesena
Il ruolo sociale della donna contemporanea la porta a ritardare sempre più spesso la prima gravidanza.
Ma avere un figlio a quarant’anni resta, dal punto di vista biologico, una sfida alla natura, che non ha adattato i propri ritmi ai rapidi mutamenti verificatisi nella mentalità e nel costume femminile.
Ne derivano diverse conseguenze negative, come la ridotta fertilità, l’accresciuto rischio di anomalie cromosomiche e i pericoli per la salute del nascituro e per quella della donna durante i nove mesi dell’attesa.
Le preoccupazioni fondamentali della natura, per quanto riguarda la specie umana, sono essenzialmente due: fare sì che possiamo riprodurci e avere figli, possibilmente sani e capaci di sopravvivere e in grado a loro volta di avere figli, e garantirci la salute e la sicurezza, arrivando anche a sospendere temporaneamente le nostre capacità riproduttive qualora queste si rivelassero minacciose per l’integrità fisica e per l’esistenza stessa.
Orologio biologico e ruolo sociale
Dunque, perché le due preoccupazioni della natura, cioè mantenerci in buona salute e farci fare figli, non entrino in conflitto tra loro, è necessario che l’acquisizione della capacità di procreare si verifichi nel momento in cui la donna ha raggiunto le caratteristiche fisiche adeguate e si interrompa nel momento in cui queste condizioni di sicurezza tendono e venir meno.
Questo sistema è regolato da un orologio biologico localizzato nell’ovaio (ed in particolare dal processo maturativo ovocitario, al culmine del quale inizia la vita riproduttiva) e dal suo contenuto di ovuli limitato, il cui mensile consumo culminerà con la menopausa.
Diventare mamma a quarant’anni costituisce ormai un evento estremamente comune, sebbene un avvenimento fisiologico come la gravidanza possa associarsi a nuove e diffuse problematiche.
Il cambiamento dello stile di vita della donna seguito alle rivendicazioni femministe, la sempre crescente tendenza allo svolgimento di attività lavorative e il desiderio di carriera hanno spostato inevitabilmente in avanti l’età in cui la donna inizia a considerare seriamente l’ipotesi di generare un figlio.
Questa modificazione del ruolo sociale della donna, però, non è stata accompagnata da un altrettanto rapido adattamento dell’età biologica femminile, e questo disequilibrio è responsabile di due grosse problematiche: la riduzione della fertilità e l’aumentata frequenza di anomalie cromosomiche.
Scelte tardive e pericoli
In accordo con il principio naturale secondo cui la riproduzione umana deve avvenire senza compromettere la salute della donna, il sesso femminile presenta una ciclicità biologica che limita il periodo del potenziale concepimento tra la comparsa della prima mestruazione e la scomparsa delle stesse.
Durante questa fase della durata di circa vent’anni, si assiste ad una progressiva riduzione della fertilità. Infatti, la massima fertilità delle donne viene raggiunta tra i 20 e i 24 anni, con un primo brusco declino dopo i 30 anni e un calo veramente importante dopo i 40 anni.
Questo progressivo calo della fertilità, unito alla tendenza sociale ormai diffusa a cercare una gravidanza tardivamente, ha comportato l’ipotesi di un aumento di incidenza della sterilità e ha determinato un conseguente maggiore “consumo” delle tecniche di riproduzione assistita.
Così la gestazione, in una donna di quarant’anni, inizia spesso per merito di queste tecniche, con un maggiore rischio di esiti sfavorevoli della gravidanza attribuiti solo in parte alle metodiche di assistenza, poiché verosimilmente dipendenti dall’età della donna stessa.
Dunque, lo spostamento dell’età della prima maternità e il parallelo sviluppo delle tecniche di riproduzione assistita hanno contribuito ad incrementare la frequenza delle gravidanze tardive, ma nello stesso tempo hanno gettato le basi per la nascita di problematiche morali e sociali più complesse.
Infatti, la possibilità di poter disporre di oviciti altrui (ovodonazioni) può permettere persino ad una donna di 60 anni l’inizio di una gestazione. Ovviamente questi casi limite sfidano il binomio naturale fra riproduzione e salute, ed espongono ulteriormente madre e figlio a rischi non trascurabili per la loro salute, attribuibili essenzialmente al pericolo di parto pretermine, che si aggiungono a problematiche etiche più complesse come la negazione del diritto dei bambini di essere educati e cresciuti da genitori “normalmente giovani”.
Anomalie cromosomiche in agguato
Parallelamente alla riduzione della fertilità, l’aumentare dell’età della donna è responsabile anche di una crescita nella frequenza di anomalie cromosomiche, in particolare trisomie e polisomie X.
In pratica, quanto più una donna è avanti con gli anni, tanto maggiore è il rischio che il nascituro non sia normale dal punto di vista del suo contenuto di DNA. La maggior parte di queste alterazioni cromosomiche è incompatibile con la vita: ne deriva una sorta di selezione naturale, che culmina con l’interruzione spontanea della gravidanza nel primo trimestre.
La frequenza di queste anomalie, insieme ad un ambiente riproduttivo tendente all’esaurimento, spiega il maggiore tasso di abortività riscontrato nelle donne con età maggiore di 35 anni. Tra le alterazioni cromosomiche compatibili con la sopravvivenza extrauterina, la sindrome di Down, o trisomia 21, è la più frequente e la più conosciuta.
La sua incidenza dipende fortemente dall’età materna: infatti, mentre una donna a 35 anni presenta un rischio di partorire un figlio con un’anomalia cromosomica quasi sovrapponibile a quello della popolazione generale, una donna di età superiore ai 35 anni evidenzia un rischio aumentato. Negli ultimi anni sono stati sviluppati diversi test di screening, sia ecografici sia basati sul dosaggio di sostanze plasmatiche materne, che permettono di stimare il rischio di avere in grembo un figlio portatore di un’anomalia cromosomica.
In realtà questo tipo di approccio trova uno scarso impiego razionale in donne che hanno superato i 35 anni, età alla quale l’esecuzione di esami invasivi come la villocentesi o l’amniocentesi è sicuramente più precisa in quanto porta ad una diagnosi certa di normalità o anormalità genetica.
Una sfida alle regole della natura
Come già accennato, la gravidanza insorta ad un’età relativamente vicina alla fine dell’epoca riproduttiva di una donna, pur essendo un fenomeno che le nuove regole sociali tendono a rendere più comune, costituisce una sfida non trascurabile alle regole dettate dalla natura.
Si tratta di un evento in cui la fisiologia viene fortemente minata dal tentativo naturale di salvaguardare la salute della donna: esso impone un atteggiamento medico diverso, più attento e preoccupato di quanto non sia necessario per seguire una gestazione sopravvenuta in età più giovane.
Una gestazione che insorge dopo i 35 anni comporta dei rischi anche per la salute della donna Infatti, nei soggetti già predisposti è più elevato il pericolo che insorgano ipertensione e diabete nel corso della gravidanza. Queste indicazioni sembrano in accordo con il concetto di sfida che la vita sociale della donna sta lanciando alla biologia della donna stessa.
In conclusione, se da una parte assume grande importanza l’attenzione da porre nei confronti di una gravidanza insorta tardivamente, un ruolo ancora maggiore riguarda la sensibilizzazione nei riguardi di queste problematiche, al fine, se non di frenate, almeno di rallentare questa tendenza ad avere dei figli in età più vicine alla fine della vita riproduttiva femminile.